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L’EDUCATORE SULLA SCENA CONTEMPORANEA
di Carlo Nanni
La riflessione su una figura sempre più necessaria nella società attuale.
“Il vigliacco di oggi è il bimbo che schernivamo ieri,
l’aguzzino di oggi è il bimbo che frustavamo ieri;
l’impostore di oggi è il bimbo a cui non credevamo ieri;
il contestatore di oggi è il bimbo che opprimevamo ieri,
il non complessato di oggi è il bimbo che incoraggiavamo ieri;
l’espansivo di oggi, .. è il bimbo. che non trascuravamo ieri;
il giusto di oggi . è il bimbo che non calunniavamo ieri;
l’indulgente di oggi . è il bimbo che perdonavamo ieri;
l’uomo che respira amore e bellezza è il bimbo che viveva nella gioia ieri”.
(Ronald Russel)
 
 
L’educATTORE è il titolo che è stato indicato per questa mia riflessione sull’educatore, è evocativo e fascinoso. A me richiama Pirandello, la platea, il teatro, i film, la televisione, attori famosi di cinema e di teatro, presentatori di televisione: con tutta la carica di seduzione, che tali luoghi e figure scatenano. Ma mi rendono pensoso per il tasso di gioco e di distanza dalla realtà vissuta, che pure comportano. Oggi la videosfera alla Truman show o i videogame alla “Total recall” (titolo del film tradotto in italiano con “Atto di forza”, essendo Schwarzenegger l’attore principale) tendono a rarefare il confine tra reale e virtuale, ma a tutto svantaggio del reale! Dico sinceramente che mi sono venuti alla mente anche pensieri duri, come le bibliche “vanità delle vanità”; il richiamo evangelico-spirituale che ricorda che “passa la scena di questo mondo”; o la “insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, che a sua volta si rifà a Nietzsche.
Questi pensieri e queste stati di animo mi sono venuti alla mente perché ho subito fatto riferimento agli educatori professionali nella loro concreta pratica educativa, oggi soprattutto, che sono chiamati a giocare il loro ruolo sulla difficile scena di una società complessa, post-moderna, globalizzata.
 
Non è facile educare
 
Non è mai stato semplice educare e educarsi, oggi come ieri: si frappongono il temperamento, i rapporti familiari, la società, il lavoro, la vita adulta.... è difficile per tutti, genitori, insegnanti, educatori, sacerdoti, catechisti, ma anche per i figli, per i ragazzi, le ragazze, gli studenti, i giovani, i fidanzati, le coppie giovani e mature; nel campo delle relazioni parentali, sul lavoro, nella vita civile e in quella comunitaria. Ne sono spesso duro impedimento le paure personali e del contesto, le amicizie, il quartiere, la vita cittadina, le violenze, i pedofili, il terrorismo, le angosce di vita, le liti e le separazioni familiari, l’angoscia del futuro, del posto di lavoro, della sopravvivenza!
 
L’educazione implica un “decidersi per…”, un pigliar posizione sulla vita propria e altrui (responsabilità o irresponsabilità educativa dopo quella generativa). Oggi, non meno di ieri è difficile essere responsabili di se, della propria vita, dare continuità alla vita e alla azione, fedeltà alle relazioni, alle idee, ai propositi, agli impegni presi, ai riferimenti ideali e di fede… e magari vedere che non ce la facciamo ci carica di sensi di colpa o di irrequietezza o ci fa diventare aggressivi o depressi (gettandoci in un isolamento in cui si sente che ci manca il sostegno familiare, amicale comunitario, veritativo, ideale…).
 
Educare e educarsi è sempre “rischio”: l’impegno educativo e auto-educativo non ha il successo assicurato. Non tutto dipende dagli educatori, dall’impegno di ognuno, dalla progettazione degli interventi, dalla solidità della comunità educativa: ci si fa in quattro, e poi…?
Verrebbe quindi da dire: “educare si deve, ma si può?”, come si intitola un saggio del teologo Giuseppe Angelini (Milano, Vita e Pensiero, 2002).
Ma i grandi educatori di sempre e di oggi sono lì ad attestare che, pur con tutte le difficoltà, è possibile essere educatori e buoni educatori! E ci mostrano che una vita grande, generosa e caritatevole, alla lunga vale più di una vita gretta e meschina o da furbi e da prepotenti e arroganti: costa ma vale, comporta sofferenza, ma vale la pena, mette paura ma pure invita al coraggio e a vivere “alla lunga e alla grande”.
E forse, anche per noi, educatori di “statura media”, è possibile: a certi patti.
Quali?
 
Insieme si può, almeno un po’!
 
A me ha fatto molto piacere leggere nel decreto legislativo per l'attuazione dell'art. 5 della legge 53/2003, relativo alla formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, l’affermazione iniziale: “I docenti delle varie comunità di apprendimento sono i protagonisti, insieme agli alunni, del processo educativo e svolgono un ruolo attivo nel cambiamento del sistema di istruzione e formazione”. Credo che si possa trasferire anche al campo d’azione dell’educatore professionale.
Personalmenteho sempre visto con qualche riluttanza le affermazioni relative alla “centralità del soggetto che apprende” (come si diceva nei documenti di riforma ai tempi dei ministri Berlinguer-De Mauro) o alla “centralità della persona che apprende” (come si afferma nei documenti di riforma del ministro Moratti). “Porre al centro il ragazzo” – come spesso diciamo con le migliori intenzioni di questo mondo – rischia di farlo diventare l’oggetto delle “cure educative” di noi adulti, ossessivamente preoccupati di non far mancare a lui niente che non sia in ordine al suo “successo educativo”! E lo facciamo diventare quasi “un pollo ad ingrasso”!
Al centro, non c’è il ragazzo, c’è il processo di apprendimento; e all’orizzonte “la crescita e la valorizzazione della persona” (L. 53/28 marzo 2003, art. 1 c. 1): del ragazzo in primo luogo, ma di tutti e di ognuno, delle persone, dei gruppi, delle comunità.
L’educazione non è tanto azione degli educatori “sugli” e “per” gli educandi, è funzione della relazione educativa “tra” educatori e educandi, in vista della personalizzazione “competente” dei giovani e della buona qualità della vita propria, altrui e comune. Gli educandi non sono né oggetti, né utenti, né destinatari, ma soggetti attivi e protagonisti responsabili, per quanto e nelle forme che loro competono.
Freire diceva che “nessuno educa nessuno, nessuno è educato da nessuno, ci si educa insieme”: nel senso più vasto e più ampio del termine.
Ancora più precisamente: se è vero che il “luogo” per eccellenza dell’educare è la relazione educativa, ebbene, è subito da dire che essa non si chiude in una relazione dualistica e intimistica di io-tu, pur essendo fondamentale tale aspetto; e non si chiude neppure nel gruppo “auto-gasato” e “in fusione”. La relazione educativa ha le dimensioni e l’ampiezza della comunità educativa nella sua globalità e nelle sue articolazioni, modalità e tempi, procedure e stili. Anzi essa stessa si colloca e si apre all’interazione oltre se stessa: alle famiglie, al territorio, ai mondi vitali vicini e lontani, locali, nazionali, internazionali, mondiali, agli scenari attuali e futuri.
 A me piace pensare all’educazione come a una “partita pedagogica”, che trova nella comunità educativa non solo l’ambiente e lo strumento, il “campo”, ma anche il soggetto di referenza ultimo e il fulcro promotore primo, le diverse “squadre”, in cui i diversi soggetti individuali e sociali, ognuno per quanto loro compete, interagiscono e agiscono “insieme” (come squadra, come giocatori con diversi ruoli, come arbitri, come segnalinee, come tifosi, che seguono sugli spalti o alla radio o alla televisione ecc.), con un regolamento, con un campionato fatto di giornate di andata e ritorno, con una organizzazione… per vincere, ma anzitutto per giocare. E c’è da prepararsi, da allenarsi, da essere in forma.
Qui si è voluto invece far riferimento all’educ-attore. Ebbene, anche in questo caso, ci si può rifare, ad esempio, all’icona della scena teatrale. In particolare a quando alla fine della recita si chiama sul palco l’intera compagnia teatrale, tutta insieme e con tutti i suoi componenti, con i loro diversi ruoli teatrali; ma si chiamano o ci si ricorda anche dell’autore del copione o del testo che si è prodotto, che è stato necessario capire, mettere in scena, recitare; e magari si chiama sul palco chi lavora e fatica dietro le quinte, e si ringraziano gli spettatori in platea, che si sono coinvolti e di cui magari si è cercato l’applauso… E non si potrà mettere tra parentesi, in ogni caso, l’aspirazione a realizzare una bella “pièce”, piaccia o non piaccia: magari con tante prove e con la paura che non vada bene.
Oppure si può pensare ai programmi televisivi, dove interagiscono, per la buona riuscita (e non solo per catturare l’audience), autori, registi, presentatori, invitati, chiamate in rete; o ancora si può pensare alla produzione di film e al team di autori, regista, attori, cameraman, comparse, scenografia, montaggio, e magari il tutto dopo una difficile ricerca di sponsor o di case di produzione che accettino e ne permettano, non senza restrizioni, la realizzazione concreta che dovrà poi fare i conti con il pubblico, rischiando il successo o il bluff più completo.
 
Conoscere educativamente “Pierino”!
 
In questo contesto, quale è il ruolo dell’educatore-attore che dir si voglia?
Ovviamente, parlando di “educ-attore – come del resto è evidente nel quadro diversificato di chi lavora nelle comunità – ci si riferisce soprattutto a chi fa azione educativa in mezzo ai ragazzi, a colui e coloro che portano il “peso e la fatica” quotidiana della relazione educativa in comunità.
Perché la sua azione sia al contempo valida e efficace, dovrà prepararsi, avere forza nell’agire, monitorare e valutare la sua stessa prestazione professionale.
A questo scopo come dovrà equipaggiarsi? A cosa dovrà badare? Su cosa dovrà fare conto?
La tradizione pedagogica scolastica diceva che se si voleva insegnare a “Pierino” la matematica, anzitutto occorreva conoscere Pierino e il suo contesto socio-economico culturale.
In questo senso e in ogni caso, è basilarmente importante per l’educatore (o meglio per il team degli educatori): “farsi l’occhio all’educazione”, vale a dire saper leggere educativamente la realtà in genere, e quella giovanile in particolare, dando priorità al personale, rispetto allo strutturale. C’è da arrivare e conoscere le persone “con il nome e con il cognome”; vedendo e cercando di scoprire in essi e attorno ad essi il potenziale oltre che l’effettivo (le risorse soggettive e contestuali); leggendo persone, fatti e eventi al positivo-valoriale e non al negativo-deprimente e scoraggiante (in tutti c’è del bene: don Bosco ripeteva che anche nel ragazzo più disgraziato c’è un punto accessibile al bene). Certo pur sapendo che ci sono dei “no”, ma anche dei “sì”, che aiutano a crescere! (Phillips).
Don Milani diceva che “il maestro – noi diremmo l’educatore – deve essere, per quanto può, un profeta, scrutare i ‘segni dei tempi’, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso” (L. Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1965, p. 37).
Non solo capire: saper stare e camminare insieme
 
Ma non si tratta solo di cogliere il bello e il buono, conoscere o capire. Sarebbe un’illusione “illuministica”.
Prima o al contempo c’è da saper accogliere coloro con cui si entra in relazione educativa, così come sono e per quello che sono: senza preconcetti e pregiudizi, senza giudizi e etichettamenti facili, pur non giustificando modi e comportamenti che appaiono non di segno positivo: solo così si potrà stimolarli a crescere e promuovere le loro capacità personali.
Educare e educarsi chiede fiducia, la vuole, la dà, la crea, si basa… sulla fiducia; e per questo chiede, come educatori, di essere “persone di fiducia”, “competenti nella relazione di aiuto”: tali da essere riconosciuti e rispettati, e soprattutto degni della fiducia che si è riposta in loro (mi viene da pensare al recente film francese: “Les choristes”).
Per questo occorre creare le pre-condizioni opportune, quella che potremmo dire la “piattaforma” comunicativa: accogliere e farsi accogliere, saper ascoltare, saper stare al dialogo e alle sue “regole, saper accompagnare e camminare insieme, avere il senso del limite; senza pretendere che sin dall’inizio e sempre giovani e ragazzi stiano alle regole, si comportino correttamene, siano “bravini”, “educati” o siano “a nostra immagine e somiglianza”: certo non per fissarli in questi momenti iniziali o particolari, ma per educare loro e la loro “domanda” (cioè aiutando a esplicitarla, farla crescere, portarla alla sua forma più grande e più bella).
 
Un decalogo per l’educatore professionale
 
Don Bosco diceva ai suoi educatori, “studia di farti amare” e aggiungeva che non era sufficiente amare ma occorreva che i ragazzi sentissero di essere amati.
Ma anche questo non basta. Egli stesso, rivolgendosi ai suoi giovani, aggiungeva: “per voi studio...".
Non basta amare, voler bene e volere il bene. Il bene bisogna volerlo bene.
In questo orizzonte di senso si comprende oggi più che mai l’esigenza inderogabile di solide competenze, di una buona formazione iniziale e continua e del continuo aggiornamento.
Qualche tempo fa, con un gruppo di educatori, abbiamo stilato un decalogo, per evidenziare le “competenze” e le qualità che possono aiutare l’educatore professionale a svolgere il suo ruolo in maniera valida ed efficace.
Lo presento così come fu scritto, senza pretese di esaustività e di completezza e persino senza rifiniture formali. Eccolo nella sua scansione numerica:
 
1 - disponibilità (accoglienza e empatia);
2 - autorevolezza (vicinanza, ma significatività testimoniante e propositiva);
3 - ascolto e conoscenza di persone, di dinamiche, di processi e di linee di tendenza in atto;
4 - informazione e orientamento (su base di bagaglio di conoscenze, valori, possibilità…);
5 - essere punto di consultazione e di riferimento (“campo base”, come dice la teoria psicologica dell’attaccamento, per le esplorazioni di senso e di esperienze ipotetiche e reali);
6 - accudimento (vale a dire prendersi cura e presa in carico) dei bisogni, ma anche sviluppo della responsabilità, senso della comunità, e della compartecipazione alla “cultura” del progetto;
7 - accompagnamento “discreto”: tra sostegno e progressivo guadagno di autonomia, tra prossimità e progressiva distanziazione;
8 - favorire l’interiorizzazione delle regole, richiedendo esecutività, pur nella negoziazione/ concertazione tra le differenti parti in causa e magari imparando dagli errori;
9 - promozione della socializzazione con incontri, scambi, confronti, promozione di attività che favoriscano la partecipazione attiva la capacita di auto-organizzazione e auto-gestione;
10 - promozione di capacità e competenze, sviluppando le potenzialità personali e di gruppo e stimolando la progettualità per dare “corpo” ai “buoni sogni” di vita.
 
Oltre le competenze e le capacità: essere persone valide
 
Ma vorrei evidenziare il fatto che, oggi più che mai, il fare l’educatore professionale, lo stare sulla scena dell’educazione in comunità, richiede di essere persone forti e coraggiose, libere e chiaramente identificate, tali cioè da poter dire e dirsi le proprie coordinate, il proprio “posto nel mondo”, il luogo dove si è e dove e come potersi (e volersi) incontrare con gli altri e assumere il nuovo, e le diversità, con cui ci si viene ad incontrare nel corso dell’esistenza e già direttamente nell’esperienza educativa: non fosse altro per non “proiettare”, come si dice in termini psicoanalitici, problemi e inquietudini personali su coloro con cui si è in relazione educativa, e non impastare di angoscia i processi di apprendimento.
Si potrebbe dire che, a motivo dello stretto rapporto che sussiste tra professionalità e vita, tra attuazione di ruolo e stile di personalità, sarà da pensare di sviluppare e curare non solo competenze e capacità operative, ma anche stili di personalità validamente educativi.
Forse si potrà ripensare il corredo classico delle “virtù” che da sempre dicono la forza e la validità della esistenza personale: le virtù “cardinali” del comportamento e della relazione (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza); le virtù “dianoetiche” dell’intelligenza (intelletto, senso critico, artisticità e capacità tecnologiche-operative…); le virtù della “trascendenza” (fede-fiducia in…; speranza-apertura al di più, all’oltre, all’ulteriore; solidarietà, oblatività…), che cristianamente trovano la loro più alta e profonda qualificazione nel sapersi e nel realizzarsi come “teologali”, cioè pensate, vissute, praticate nel rapporto con Dio: venendosi, per questo, a denominare sinteticamente come: fede, speranza, carità. In entrambi i casi l’incontro è sul terreno della fede nell’uomo e/o in una società migliore, più giusta e più equa; concretamente sono atteggiate alla disponibilità e alla apertura al nuovo, al futuro, all’oltre e al di più; e fattivamente vengono impegnate nel “prendersi cura” (il take care” di don Dilani) di coloro e della situazione in cui storicamente viviamo.
 
Uscire dal soggettivismo, dalle paure... e dall’eterna adolescenza
 
Questo bagaglio di competenze e di virtù è oggi sommamente necessario
perché oggi la scena contemporanea è tutt’altro che semplice.
 
Oggi ancor più di ieri. il clima locale e mondiale apportato dalla globalizzazione dell’imprenditoria internazionale e del mercato mondializzato, ma anche dalle nuove tecnologie informatizzate, dalla multicultura generalizzata, dai valori dominanti ispirati all’efficienza, alla produttività, al successo e al benessere soggettivo, oltre che dai modi fortemente relativistici e soggettivistici dell’agire etico e della vita religiosa, ha portato a profondi cambiamenti e innovazioni non solo strutturali, ma culturali e vitali.
Ne risentono fortemente il modo di vedere e di vivere la vita, così come l’agire soggettivo e comunitario, le relazioni interpersonali e sociali: ne sono segni l’espandersi della insicurezza vitale, del senso di incertezza ideale e comportamentale, le chiusure egoistiche degli individui e dei gruppi o delle parti sociali. Le comunità locali e nazionali trovano difficoltà ad avere spazi e luoghi che sostengano la crescita della generazione in crescita e la buona qualità della vita di adulti e anziani, mentre invece sovrabbondano i “non luoghi" dove i ragazzi (ma anche gli adulti e gli anziani) vanno a divertirsi o dove si incontrano non sempre positivamente, con rischi di devianza, droga, alcolismo, relazioni sessuali “incoscienti”). Il vivere al momento e con il desiderio di aver tutto insieme e subito si accompagna alla mancanza di valori di riferimento certi, fondati e motivati..
Non sono solo i genitori, le famiglie, le scuole, le parrocchie, le comunità civili a non saper che fare.
 
Queste tendenzialità vitali, contestuali e sociali, rischiano di risultare pietre di inciampo (o perlomeno punti critici) per un’azione educativa promotrice di senso e formatrice di personalità capaci di vivere una vita umanamente degna per sé e per gli altri.
Mi focalizzo su quattro “snodi” che sono assolutamente da superare.
 
1. Superare il soggettivismo ideale e valoriale: l’io è visto come centro di tutto e regola di verità e di valore, che spesso si riduce a scambiare la verità con quel che uno pensa, e il bene con “ciò che a me piace”. L’oggettività della realtà e la sua verità, così come la trascendenza degli altri, del mondo e di Dio, vengono messe decisamente in secondo ordine o del tutto oscurate.
Il fine, il bene comune (ma anche il rispetto dei tempo e delle cose, il senso della misura dell’intervento tecnico), per cui impegnarsi e dare il proprio contributo di impegno partecipativo, collaborativo e solidale rischiano di non essere neppure messi in conto.
L’altro – qualsiasi forma di alterità: quella interna a noi stessi, le persone, la società, le istituzioni, gli oggetti, le cose, il tempo, la cultura, la tecnica, i valori, Dio – rischia di essere ridotto a complemento dell’io, a espressione di sé, a destinatario, a oggetto, a utente, a mezzo, a strumento, a desiderio possessivo, a oggetto di consumo da “prendere consumare e buttar via” da parte dell’io: tutto, fuorché a un altro-io, a un soggetto-partner di una relazione interpersonale, che chiede rispetto, libertà, interazione, reciprocità, oltre che aiuto e solidarietà.
L’autorealizzazione diventa senza limite e freno, quasi una religione dell’io, che rischia di far cadere nella malattia mortale del “narcisismo” di un io senza mondo, senza tempo, senza altri, senza vita (o di finire in altre forme di depressione bulimiche o anoressiche o depressive o aggressive).
 
2) superare una certa idea e pratica della relazione (che certamente è un guadagno del pensiero del secolo XX, rispetto al soggettivismo ottocentesco), affinché:
 - non sia ridotta – come è spesso – solo alla sua dimensione empirica, pubblica, “corretta”, “orizzontale”: dimenticando o trascurando o lasciando al “privato” la dimensione dell’interiorità e della diversità personale, così come la dimensione “verticale”, quella della profondità e della verità di ciò che è nel mondo e nell’orizzonte trascendente della relazione
- non sia ristretta alla sola dimensione interpersonale di io-tu, ma aperta al noi personale e istituzionale e culturale, con senso di fedeltà alle persone, alle cose, alla storia, ai ritmi di maturazione delle persone e dei processi storici;
 
3) superare l’enfasi sull’agire e l’operare. Qualche decennio fa, E. Fromm ci aveva messi sull’avviso a non lasciarci prendere dall’avere a danno dell’essere. Oggi, in più c’è da badare di non restare vittime dell’enfasi che poniamo sull'agire, sul fare, sull'avere, più che sull'essere; sul comportamentale più che sull'ontologico; sui ruoli più che sulle persone; sui processi più che sui contenuti; sul mutamento e l'innovazione più che sul continuo e il perdurante; più sull'omologazione che sull'identità originale; al limite, più sul momento e l’attimo fuggente, che su ciò che vale per la vita, più sull'apparire che sull'essere, più sulla facciata che sulla personalità profonda dell'io e dell'altro, più sulla funzionalità che sul senso della relazione.
Il gratuito, il momento contemplativo, l’essere profondo sono vengono facilmente poco intesi.
 
4) superare e non lasciarsi irretire dall’ideologia della adolescenza e della “giovinezza perenne”, che prende soprattutto gli adulti, i quali si lasciano andare alla spontaneità senza limite, all’avventura, al come viene, da eterni bambini e da Peter Pan incalliti che non crescono. Tale ideologia è deleteria per sé (perché impedisce di vivere e godere il bello di ogni età della vita) e per la crescita dei giovani (che non vengono ad avere modelli di vita adulta nei genitori, negli educatori, nelle persone con cui sono in rapporto, con rischio di fughe nel “virtuale”, e di fissarsi sul riferimento tipicamente adolescenziale sulle “star” o in una giovinezza allungata dai modi “bambineschi”... come quelli che gli adulti ricercano a ogni costo).
 
Ripensare le impostazioni pedagogiche generali
 
Nella Lettera a una professoressa, i ragazzi di Barbiana ricordano che nella loro scuola avevano imparato a affrontare i problemi e aiutarsi a vicenda a risolverli. “Voi coi vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate solo a farsi strada”. Baden Powell, da quell’educatore inglese pratico e pragmatico che era, richiedeva a tutti di “lasciare il mondo un po’ meglio di come lo si è trovato”.
A me pare che oggi siano maturi i tempi in cui ripensare certe impostazioni pedagogiche generali e che occorra porsi nella prospettiva:
1) di una pedagogia della risposta/mediazione ai bisogni di crescita dei ragazzi, ma anche della proposta/stimolazione, valida e significativa;
2) di una pedagogia dello sviluppo personale, ma meglio di una pedagogia del fine da raggiungere, vale a dire l’essere persone coscienti, libere, responsabili, solidali capaci di fare cultura, oltre che fruire e acquisire cultura, di produrre e non solo di consumare, di innovare e non solo di ripetere, di essere originali e non solo esecutivi, di cooperare all’incremento del bene comune e non solo di agire per conto proprio e per fini propri.
3) di una pedagogia del servizio all’apprendimento delle persone in crescita e della loro buona qualificazione o riqualificazione di vita, ma anche di una pedagogia per il servizio: vale a dire una pedagogia della stimolazione, del suscitamento, della vocazione/missione, che aiuta a conoscere i talenti propri e comuni e le risorse dei diversi contesti di riferimento, e che spinge alla partecipazione e al servizio, all’aiuto reciproco, alla cooperazione per una società dal volto umano, per uno sviluppo storicamente sostenibile per tutti e ognuno, per una “civiltà dell’amore” (evangelicamente: per la salvezza del mondo, camminando verso il Regno di Dio, in cui abiterà definitivamente e completamente giustizia e verità!).
 
Conclusione
 
Gesualdo Nosegno, il fondatore carismatico dell’UCIIM, pensando ai giovani diceva: “Educatore: se tu rallenti essi si perderanno, se ti scoraggi essi si fiaccheranno, se ti siedi essi si coricheranno, se tu dubiti essi si disperderanno, se tu vai innanzi essi ti supereranno, se tu doni la tua mano, essi doneranno la vita, se tu preghi essi saranno santi. Che tu sia sempre l’educatore che non rallenta, che non si scoraggia, che non dubita, ma va innanzi, dona la mano, prega”.
Questa frase potrà apparire troppo entusiastica. Ma può non essere “inguaribilmente ottimista” un educatore (e un educatore cristiano), che è, per eccellenza, persona di speranza, “persona schierata” ad oltranza “dalla parte” dei ragazzi e delle ragazze e del loro desiderio, inespresso ed espresso, di crescita, che sarà magari da educare, cioè coscientizzare, promuovere, rafforzare, validare, ma mai reprimere o mortificare o sciupare o non far crescere e maturare (essendo, cristianamente, paragonabile al seme, al talento, alla perla preziosa, alla pecorella smarrita... ma, in ogni caso, tale per cui Dio si è fatto uomo e ha dato la vita)?
È proprio fuori delle nostre possibilità? Non lo possiamo fare anche noi?
Certo, come ogni professionalità sociale, anche quella dell’educatore professionale chiede un buono status socio-economico, una quadro di legalità legittimata e garante, un codice deontologico chiaro e stimolativo, una serie di idee e valori etici condivisi e condivisibili, ma anche una coscienza morale forte e sensibile e una fede (laica o religiosa a cui ultimamente ci si riferisce.
Se mancano totalmente o in parte queste pre-condizioni, tutto diventa più difficile e forse impossibile agire come si vorrebbe.
Per questo auguro a tutti gli educatori (o se si vuole agli educ-Attori) che sia loro concesso di godere di aver potuto realizzare almeno un poco quello che era ed è in cima alle loro sogni educativi.
 
Carlo Nanni è vicerettore dell’Università Pontificia Salesiana
 
Data di pubblicazione on line: 21 dicembre 2005
 
 
Fonte: Intervento tenuto durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto “Progetto Uomo” a Viterbo il 16 dicembre 2005
 
 
 
 
 
commento all'articolo
Concordo con le riflessioni del dott. Nanni sulla figura dell'educatore nella attuale società. Sono un'educatrice che ama questa professione e anche se sono solo all'inizio, ho coscienza della responsabilità e dell'impegno che comporta il lavoro nel sociale. Le scienze umane definiscono educatore signigicativo, colui che riesce a svolgere il ruolo di guida nella complementarietà della relazione, guida che capisce e insegna a capire, che valorizza e insegna a valorizzare, che limita e sa autolimitarsi. Certamente è un compito impegnativo ma soprattutto è un compito che richiede una predisposizione ad assolverlo. Fare un lavoro nel sociale è diverso da fare un qualsiasi altro lavoro perchè le relazioni che si  creano, i processi che si innescano hanno una valenza diversa. Troppo spesso i giovani quando si iscrivono all'università, non hanno le idee chiare su ciò che vogliono fare o su cosa comporti un dato corso di studi, spesso più che seguire le inclinazioni, scelgono guardando lo sbocco professionale, le possibilità di inserimento nel mondo lavorativo. Capita così di acquisire un titolo che popi non si sa come "spendere". La pratica è diversa dalla teoria, un lavoro può non piacere e se ne può cercare un altro, ma bisogna avere la maturità e il coraggio di farlo. Soprattutto nel sociale lavorare male è deleterio perchè gli "utenti" hanno un "di meno" e si aspettano da noi quel "di più" che possa compensare le loro fragilità. Un educatore che vive la sindrome del burn-out rischia di bruciare l'intero intervento educativo. Per questo bisogna saper riconoscere le proprie possibilità e i propri limiti. Ho conosciuto educatori poco attenti, poco disponibili, poco realizzati. Ecco perchè insisto sulla predisposizione quale competenza fondamentale di un buon educatore.
 
Elena Guida - 26 dicembre 2005
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