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La vita affettiva
Da Diocesi di Cesena-Sarsina: 
 
 
Il desiderio di relazioni affettive:
la realta’ di oggi
 
 
prof. Riccardo Prandini
docente di Sociologia della famiglia - Bologna
(relazione di martedì 8 ottobre 2002)
 
 
  
Il tema dell’affettività, appena ricevuto l’invito a parlarne i questa sede, io l’avevo subito derubricato sotto il titolo “affettività e coppia”, cioè l’affettività nella relazione di coppia tra i giovani.
Poi ho pensato: il tema ha sì a che vedere con la relazione di coppia, ma ridurlo alla sola relazione di coppia vuol dire ridurne il significato. Mi è venuta proprio questa idea: ho acceso il computer e ho scritto queste poche pagine cercando di coglierne i punti fondamentali e di ripensare il problema dell’affettività.
La prima cosa che bisogna fare quando si parla di affettività, allora, è andare a vedere cosa significhi questo termine. Esso ha due significati che sono diversi, ma correlati.
 
Il primo significato è quello di associare l’affettività allo stato in cui ritrova chiunque subisca un’azione o una modificazione da una causa esterna. Uno è affetto da qualcosa, viene colpito da qualcosa, patisce qualcosa: è una situazione di passività, di ricezione. Questo è il primo concetto di affetto: non si parla solo del- l’affetto intero come sentimento che noi abbiamo verso qualcuno, qualcosa di attivo, ma è qualcosa che subiamo e da cui veniamo colpiti. Infatti a riprova di ciò è la traduzione dal greco, patos, cioè il patire, l’essere nella condizione di ricevimento di passività, è il contrario di agire.
Questo termine per tantissimo tempo è stato messo in contrapposizione alla razionalità, è stato concepito come qualcosa di negativo, si subisce qualcosa, non si è capaci di controllare qualcosa che ci giunge dall’esterno. Ecco perché c’è tutta una tradizione che arriva fino ad oggi per cui si dice che una persona è troppo sensibile, troppo emotiva, subisce troppo; è una perturbazione dall’esterno e non la sua rielaborazione. Il primo concetto, quindi, riguarda l’essere affetti da, l’essere colpiti da.
 
Il secondo concetto a noi molto più comune, ma non per questo l’unico, è quello di pensare all’affettività come relazione emotiva positiva: un tipo di relazione che noi abbiamo nei confronti di una persona, positiva, portiamo affetto per una persona. Qui l’emozione, l’affettività non ha il carattere totalizzante della passione, non è qualcosa che ci giunge inaspettatamente e ci colpisce lasciandoci “nudi”, senza capacità di reagire. E’ qualcosa di più tranquillo, di più elaborato, di più mediato. Infatti quando parliamo di bisogno di affettività parliamo di bisogno di cura reciproca, il prendersi cura di qualcuno, avere come progetto qualcuno. Il prendersi cura vuol dire che tu quella persona non ce l’hai davanti in maniera indifferente, ma come un progetto, vuoi fare qualcosa con lei, sei in una relazione ben specifica di progettualità. Affettività qui significa essere premurosi, attenti, solleciti, in un certo senso anticipando i bisogni dell’altro:volergli bene. Dire che si ha bisogno di affetto significa dire che si ha bisogno di essere capiti, compresi, accettati, presi in cura da qualcun altro.
La cosa fondamentale per capire l’affettività nel mondo giovanile e non soltanto, è non dimenticarsi che l’affettività è fatta di questi due significati di cui abbiamo parlato. Oggi (in questo Seminario di studi) si parla prevalentemente del secondo significato, ma teniamo ben presente anche tutto il lato passivo. Entrambi i significati comportano una forma relazionale, cioè hanno come condizione per manifestarsi la relazione con qualcun altro. Non è un fatto soggettivo ed individuale l’affettività, ma è sempre un fatto che presuppone la relazione. La mia tesi è di tenere ben presente la prima accezione (affettività come passività): mai come oggi sembra che il problema dell’affettività nel mondo giovanile, si ponga nel primo significato, quello del patire. Tanto che questa generazione viene caratterizzata come generazione di individui anaffettivi, cioè privi di capacità di patire e di prendersi anche cura in maniera forte ed elaborata dell’altro. Chiediamoci: da cosa vengono colpiti oggi i ragazzi? Cosa li appassiona? Hanno delle passioni? O sono passioni esterne , costruite , gestite dal sistema dei mass media, non elaborate? Di che cosa si prendono cura? Ma gli adulti, di che cosa si prendono cura? E’ difficile capire i giovani se non si capiscono gli adulti, non si capisce l’anaffettività dei giovani senza capire gli adulti. Dentro e fuori la famiglia il tema dominante riguardo i giovani è quello della sicurezza, si vuole essere sicuri, immunizzarsi, creare delle barriere per non fare lo sforzo di entrare in una relazione di cura reciproca. Quando tu cerchi la sicurezza vuol dire che non vuoi prenderti cura dei problemi, che il problema del patire non ce l’hai più e vuoi essere immune. Cosa significa essere immune? Metafora potentissima nell’epoca dell’AIDS!
Essere immuni vuol dire rifiutare il munus, il dovere reciproco. Qual è il contrario dell’immunità? E’ la comunità, il contrario dell’immunus è il comunus, essere debitori gli uni nei confronti degli altri, prendersi cura gli uni degli altri, fare comunità. Pensate a queste due immagini: immunità e comunità e applicatele al mondo delle parrocchie, dei cristiani e delle relazioni con gli altri cristiani per vedere la potenza estrema che esse danno. Siamo comunità o immunità? Ci sentiamo in debito nei confronto degli altri? Ci sentiamo comunità coi figli degli altri? Ci sentiamo in dovere diseducarli, di prendercene cura o siamo abbastanza immuni? Io , circa l’affettività intesa come capacità di patire da parte dei giovani, vedo tre problemi.
 
 
Primo problema : l’anaffettività dei giovani
 
Le strutture di affettività dei giovani (per quelle degli adulti è ancora peggio), il modo in cui vengono affetti, colpiti e agiti dalla società, li rende anaffettivi, passivi, indifferenti, insensibili, incuranti, inattivi. Qui ci deve essere un modo della società che influisce e crea una struttura relazionale difensiva. Questo è un paradosso enorme, perché noi viviamo nella società cosiddetta della comunicazione e dell’informazione, siamo bombardati da stimoli, siamo colpiti da tutto. Qualcuno ha fatto uno studio e ha scoperto che quello che una persona legge in un quotidiano giornalmente è ciò che nel medioevo si imparava in un anno.
Di fronte a questo bombardamento di stimoli c’è una sorta di “reazione chimica” che rende indifferenti. Uno psicanalista parlerebbe di costrutto difensivo che fa sì che la struttura del patire che hanno i giovani (e non solo loro) provoca la passività, l’anaffettività, cioè il contrario di ciò che dovrebbe produrre.
 
Secondo problema: l’incapacità di patire
 
Mancano processi di apprendimento del patire. La capacità di patire non è una cosa biologica, bisogna apprenderlo. Il patire è qualcosa che va elaborato in un processo personale, diverso da individuo a individuo. La mia impressione è che ai ragazzi più giovani manchino strutture di elaborazione del patire. Nessuno gliele trasmette, in primo luogo la famiglia, dove l’ambiente è fortemente ovattato. Più c’è libertà e indifferenza in famiglia, più i giovani ci rimangono (fino a 30-35 anni). Questo tanto più quella relazione non da niente, non comporta nessuna vera forma di trasmissione di sapere e soprattutto questo sapere del patire. Mi pare che si sia tutti d’accordo sulla forte fragilità dei giovani oggi, proprio nei confronti della elaborazione del patire, della sofferenza.
A questo proposito si potrebbero portare tanti esempi. L’insensatezza (mancanza di senso) che viene data alla malattia. Più il mondo diventa tecnologico e astratto, più perde senso la sofferenza. Ma perché devo soffrire quando c’è un calmante? Le statistiche dicono che in tutto il mondo sono in aumento le sofferenze psichiche nei giovani e questo perché tutto il sistema tecnologico e medico, quando è davanti ad una sofferenza psichica, sceglie la via breve del medicinale che rende sopportabile socialmente quella sofferenza, ma non la risolve. Ti do la pastiglia, ancora sei produttivo, anche se non risolvi il problema...Non c’è la capacità di dare senso al dolore, al perché si deve star male: ho questa pasticca, la prendo e sto bene. Chi ha esperienza di sofferenze psichiche in famiglia, vede subito che la prima cosa che fanno le famiglie è di buttare tutto sul biologico e dire che un fatto è biologico, non è un fatto di relazioni, di insensatezza, quindi diamo la pasticca e via, così si perde il senso della sofferenza.
Questo vale ancora di più per la sofferenza più grave: la morte, vissuta come un tabù, non se ne può più parlare e meno si parla di morte e più la paura antropologica della morte esplode.
 
 
 
 
Terzo problema : la virtualizzazione dell’esperienza
 
La virtualizzazione dell’esperienza è un problema perché giovani generazioni non fanno ad esempio più l’esperienza con il corpo : è un problema gigantesco. Non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo , noi patiamo perché siamo un corpo, abbiamo le terminazioni nervose per cui se ci scottiamo accusiamo dolore, se non le avessimo ci danneggeremmo senza accorgercene. Questa mancanza di esperienza provoca un altro tipo di problema che è quello di non saper più esperire, interiorizzare l’affetto il patire ; un po’ alla larga ha a che fare con la vita di coppia che non è una bella entità spirituale che aleggia per casa, la coppia è fatta di corpi, di sessualità che se non viene presa in considerazione scappa da tutte le parti. Negli ultimi 10 anni, la sessualità ha un valore molto basso, non è al centro della vita della coppia e bisogna chiedersi il perché. I sociologi dicono che la sessualità non sia più un problema, che la sessualità non sia più al centro della testa dei giovani ( è vero), ma bisogna capire il perché. Prima di tutto non è più un tabù non è un’esperienza di attesa, per cui cala l’interesse nella vita delle coppie, in seconda istanza la sessualità è molto superficiale nelle coppie. L’elaborazione del rapporto sessuale è spesso molto superficiale: o si ha paura o è una cosa banale. In famiglia non se ne parla, non c’è alcuna trasmissione elaborata della sessualità. Da che cosa dipende? Anaffettività significa che non siamo in grado di elaborare ciò che ci colpisce, i nostri affetti ed emozioni: vedi crisi di panico...Da una parte abbiamo un ambiente che ci chiede il massimo controllo delle nostre emozioni, tutti dobbiamo essere controllati e capaci di regolarci, dall’altra parte , ci sono sfere dove tutto è possibile, il massimo dell’irrazionalità. Gran pare dei giovani vive lo sballo che è l’esatto contrario di ciò che si chiede di fare in pubblico. Ci si chiede di essere totalmente irrazionali. Come si fa a vivere così. Ci sono due termini nella lingua tedesca che distinguono l’esperienza: 1) l’esperienza attuale, del presente, dell’attimo che ti passa sopra; 2) quella che passa attraverso se stessi... L’epoca moderna è quella per cui da un ritmo lento si passa ad un ritmo velocissimo dove non si elabora più niente, neanche il presente. Non si trattiene più niente: da un’esperienza che trattiene ad una che non trattiene niente.
Perché questo non è più possibile? Per due motivi:
1) perché la società è fatta di tante sfere che non sono più in contatto le une con le altre. ( sfera del lavoro, della famiglia, dei rapporti intimi, della chiesa...). L’amore non ha più relazioni con la moralità, con la stabilità, con la procreazione...Non si trovano i collegamenti! Avere valori uguali, nei giovani sta all’ultimo posto, non interessa perché la relazione è fra due individualità. Il valore fondamentale è il rispetto reciproco: mi sei davanti, tu sei lì davanti, ma manteniamo una certa distanza...Due individualità non possono stare troppo vicine. L’amore è di più del rispetto. alla fine cadono nella fusione che è peggio. Non si fanno delle cose senza l’altro, ma nello stesso tempo non vogliono essere troppo vicine. Sono relazioni di amore-odio! La ricerca massima di riconoscimento, ma appena manca si passa subito all’odio. Manca quella capacità di elaborare il patire.
 
2) La società ci chiede di non essere legati: flessibilità, capacità di cambiare, mobilità...
Le famiglie hanno difficoltà a muoversi dentro un ambiente strutturato così: il sabato devi lavorare, devi uscire quando la moglie rientra, i figli non li vedi... Cresce la cultura, la cultura oggettiva e cala quella soggettiva. Cresce la rete, cala la capacità di interiorizzazione. Tutta la psicologia degli anni ’50 aveva lavorato su questa interiorizzazione della cultura comune. Noi non abbiamo il tempo di interiorizzare niente. Il cervello dei ragazzi è come una spugna. Le difficoltà di connettere le informazioni che arrivano si vede. I film stessi sono velocissimi, le immagini sconnesse. Le due ore passano in un attimo. I videogiochi sono velocissimi. La rete non ha una gerarchia, è come le radici di un albero. Ciò crea una struttura cognitiva che ha difficoltà a ritenere. Senza schemi non riesco a incasellare , non faccio esperienze, non c’è sedimentazione. 3) I mass media sono un paradosso. La diretta produce emotività, speriamo che capiti qualcosa. La diretta è indiretta perché è costruita. I giovani sono bombardati dai mass media e questi sono incapaci di far elaborare le notizie alle persone. Dove un tempo si risparmiava, ora si deve consumare, e la pubblicità è la struttura di sostegno al consumo. Noi non abbiamo una tele con la pubblicità, ma una pubblicità che ha la tele. Tutto è rendere pubblico e non deve essere interiorizzato. La struttura del consumatore è quella di chi non può mai ritenere l’oggetto, del narcisista... Qual è la carta assorbente? E’ l’anima, lei ritiene le esperienze che vengono da fuori. Oggi si vuole anestetizzare l’anima. L’essere umano ha bisogno di mediatori,è la nostra struttura che lo richiede. Il nostro sistema scherma moltissimo., ma se entra in maniera troppo forte crea danni. La sindrome che sta venendo fuori è quella dell’anaffettività, cioè la difficoltà di elaborare. I giovani non sono capaci di patire, soffrire . Solo chi patisce può avere cura, se non hai una esperienza di elaborazione dell’altro, non puoi averne cura. Puoi usare l’altro come un oggetto. Le indicazioni che il parlamento europeo dà sulle politiche dei giovani è di prevenzione nei confronti della sessualità = preservativo. Questo strumento è sicuro, cioè senza cura dell’altro, c’è l’immunità .Questa profilassi medica ha un riscontro grave tra i giovani: cosa sottende una tale libertà? Gli stessi che lanciano queste politiche sono gli stessi che parlano di anaffettività nei giornali. Sulla tele non ci sono speranze!! Ci sono tropi interesse. Gli interessi economici fanno sì che i giovani debbano consumare sempre, di continuo. La struttura dei consumi è anaffettiva: chi si lega più alla macchina? Una volta non la rottamava nessuno!! Ora non bisogna legarsi a nessuno. La virtualizzazione non aiuta. Il modello americano dice: non risparmiate, consumate!!
 
Costruire spazi d’esperienza
 
Costruire spazi di esperienza significa far fare delle esperienze ai propri figli, inserendoli in gruppi e strutture dove lo scorrere del tempo è più lento e si riflette sulla vita. Stimolarli a narrare: narrare le cose che un bimbo ha vissuto è difficile perché si devono collegare le cose, bisogna ricordare, ma solo se le narrano le interiorizzano.
Chi fa riflettere e narrare, oggi? Da un sondaggio emerge che non si trasmette come si fa a far famiglia. La maggior parte dei problemi che hanno le coppie, non sono tra di loro, ma è data dal fatto che chi entra in coppia si porta dietro tutto il mondo dei suoi genitori e quasi mai questi occhi coincidono con gli occhi dell’altro. Ci sono abitudini diverse, tutte sedimentate nel tempo. Nessuno aiuta a far capire che c’è tutto un mondo latente da tenere in considerazione .Oggi le famiglie hanno paura a fare delle esperienze ai figli, ma i figli bisogna buttarli fuori! Bisogna farli riflettere, far ritornare le cose. Mentre parli capisci anche chi sei tu.
Bisogna aiutare i figli a fare delle esperienze di lavoro, il lavorare con gli altri , la fatica fa bene.
Se sei stato abituato a lavorare un domani ti troverai meglio. La fatica vuol dire che devi guadagnarti le cose.
L’esperienza del patire è legata alla totale incapacità a soffrire . Se la famiglia dice sempre dei SI’ e poi quando c’è la morosa dice dei NO, se non hai fatto l’esperienza dei no , fai fatica a capire. Fare fatica è fondamentale. Abbiamo dei giovani sempre più preparati intellettualmente e sempre più deboli emotivamente. I ragazzi alla prima difficoltà crollano. Il non saper gestire ciò, crea problemi perché ti scontrerai con persone che ti dicono di no per il gusto di dire di no. Uno ti crolla immediatamente!! Chi ha le prime esperienze lavorative, i laureati, alle prime esperienze col datore di lavoro, diventano matti, dicono “Io mollo”. Ecco il panico, la paura. l’ansia, la paura, la depressione. La razionalità e l’affetto se ne vanno per conto loro. Si parla di razionalità fredda da una parte e emotività calda dall’altra.
 
Conclusione
 
I rapporti di coppia sono fragili oggi, non perché non ci sia la fedeltà...il problema è la difficoltà nel capire e gestire le emozioni come qualcosa di esterno che colpisce . Tutti pensiamo al lato attivo dell’affetto, ma vi invito a riflettere su quello passivo, vivo è quello passivo. Oggi insegniamo tutto ai giovani, ma non a gestire le loro emozioni e così li rendiamo nudi davanti a ciò che a loro capita.
 
(trascrizione dalla registrazione senza revisione del relatore)
 
 
 
 
 
LA VITA AFFETTIVA
di Giovanna Tripodi Cimellaro
 
Ringrazio a nome del gruppo dei Medici Cattolici per questo invito. Nella preparazione al Convegno della Chiesa Cattolica Italiana che si svolgerà a Verona nell’Ottobre 2006 dal titolo: “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”, sono stati delineati cinque ambiti di riflessione, tutti molto coinvolgenti. Di sicuro il tema della vita affettiva è per me, medico e genitore cristiano, quello più stimolante non solo per la mente ma soprattutto per il cuore.
 
L’argomento è molto complesso e può essere preso in considerazione da molteplici punti di vista: antropologico, psicologico, medico, sociologico, esperienziale, spirituale, etc.
Ritengo che sia perciò necessario limitare gli ambiti di questa conversazione, cercando di semplificare o meglio di “rappresentare” qualcosa che non è tangibile, che non si percepisce con i normali cinque sensi, ma che si “respira”.
La vita affettiva mi piace appunto paragonarla all’aria; può essere buona–salubre oppure cattiva–asfissiante. Si manifesta con un linguaggio particolare che è il linguaggio del corpo: lo sguardo, la gestualità, il tono della voce.
La vita affettiva è, in poche parole, il “nucleo germinativo” di ogni persona.
 
Ci soffermeremo brevemente sui due termini:
VITA E AFFETTIVITA’
Quando parliamo di vita intendiamo un processo limitato nel tempo: nascere, crescere, morire. E’ vita il ciclo dei vegetali, degli animali, dai protozoi fino a quelli più evoluti, con al vertice l’uomo. Cosa differenzia però l’essere umano da tutti gli altri esseri viventi?
Un elemento distintivo molto importante è di sicuro la relazionalità e i significati profondi ad essa attribuiti che costituiscono la diversità o meglio l’UNICITA’ di ciascuna persona.
Tutti i percorsi della vita umana sono impregnati di relazionalità-affettività, dal nascere al morire.
Si nasce all’interno di una relazione d’amore, si cresce come figli sperimentando quotidianamente emozioni e sensazioni che ci segneranno sino alla conclusione della vita terrena. Nasciamo con un corredo non solo cromosomico ma anche emozionale. Sin dai primi giorni di vita esprimiamo la nostra relazionalità attraverso il pianto e il sorriso. Sentiamo fame, sete, sonno, paura, dolore, abbandono, benessere e disagio; tutte sensazioni che ci permettono di creare le prime coppie di opposti, categorie fondamentali per rapportarci con il mondo, con gli altri:
  • Piacere – dispiacere
  • Amico – nemico
  • Buono – cattivo
  • Amore – odio
Tuttavia, anche nelle circostanze migliori, l’essere una persona costituisce un fenomeno fragile e incerto, che implica una costante tensione tra esperienze soggettive e realtà oggettive.
Nel corso della crescita, ciascuno di noi sperimenta se stesso attraverso l’altro; si tratta di un’esperienza che permette di conoscersi, di verificarsi, di mettersi in discussione. E’ un processo indispensabile sia per la costruzione dell’IO che per il passaggio alla tappa successiva: il riconoscimento dell’ALTRO.
Questo secondo obiettivo può essere raggiunto attraverso percorsi diversificati, da quelli utilitaristici a quelli ispirati dall’amore (Deus caritas est).
L’interscambio, pertanto, tra vita biologica e affettività in ciascuno di noi costituisce per l’intero arco dell’esistenza l’identità personale che ci caratterizza.
Quanto detto sino ad ora, si arricchisce ed entra in una dimensione più profonda se ci si vede con gli occhi di Dio. La morte allora non è “la più o meno naturale” conclusione di un ciclo vitale (eutanasia, accanimento terapeutico), ma, come ci viene suggerito dall’evangelista Giovanni, rappresenta l’inizio della “vita eterna”, dopo aver compiuto la volontà del Padre e aver lasciato agli altri un mondo migliore, un’eredità non materiale ma spirituale.
Il bambino - il figlio - non è solo il frutto dell’amore reciproco, ma è prima di tutto una creatura amata da Dio, un DONO.
La vita di ciascuno non ha valore solo per noi stessi, o per i nostri cari o per la società: ogni uomo è sacro perché amato da Dio; ogni uomo, giovane o vecchio che sia, sano o malato, piccolo o grande, ricco o povero, rispecchia il volto di Cristo.
“Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Galati2,20).
 
La nostra affettività si estrinseca principalmente nei piccoli-grandi gesti della vita quotidiana, in famiglia, nella comunità ecclesiale, nella vita sociale.
Abbiamo una serie di responsabilità per tutte le persone che il Signore mette sul nostro cammino ed esiste una SPECIFICITA’ per ognuno di noi.
Ogni impegno nella quotidianità potrà diventare preghiera e testimonianza solo se riusciremo a superare un efficientismo più o meno gratificante per accostarci all’altro con umiltà e spirito di servizio.
Alla luce di questa riflessione, il rapporto medico-paziente va oltre il semplice “curare”, diventa bensì un “prendersi cura”.
Per il medico, farsi carico dei bisogni della persona malata vuol dire sentirsi responsabilizzato, coinvolto nel benessere non solo psicofisico, ma anche spirituale (Buon Samaritano – Luca 10,25-37).
La condivisione con l’altro del suo stato, della sua sofferenza, della sua malattia supera l’empatia e la simpatia fino a raggiungere un grado di percezione dell’altro come persona importante che ha un valore in sé, CARA anche se sconosciuta. Il paziente non deve mai essere percepito come un estraneo ma come la persona con cui il medico è chiamato a relazionarsi per realizzare insieme il Regno di Dio.
Il Vangelo di Marco è uno dei testi che, nella Bibbia, più aiutano il medico nella sua quotidianità:
“Potrebbe sembrare un’affermazione azzardata, ma io credo che la lettura dei Vangeli, soprattutto quello di Marco, per certi aspetti, ha per il medico un significato particolare, specifico, non solo per l’angolazione professionale ma anche perché, per colui che opera nel campo biopatologico, l’aspetto di guaritore e di terapeuta del Cristo pone il dolore, la sofferenza, la finitudine umana al di là del fatto prodigioso, in una sfera laddove umano e divino non solo si intrecciano ma lo stesso prodigio sottolinea ancor più come la legge biologica sia l’espressione più palpitante dell’opera di Dio “ (F. D’Onofrio, Il Vangelo letto da un medico).
Nella sua ultima Lettera Pastorale “Siate miei testimoni”, mons. Mondello scrive: “Ci vuole oggi molto coraggio da parte dei cristiani nel testimoniare il vero significato dell’affettività e il giusto esaltante uso della sessualità in un mondo che ha smarrito il significato autentico della corporeità, della sessualità umana e del vero amore. Il cristiano che parla di verginità, di castità, di amore è considerato retrogrado, culturalmente deficiente e fuori dalla realtà, in questa situazione si richiede da parte dei cristiani una testimonianza coraggiosa e motivata” (p. 50).
Non è facile né semplice assimilare, vivere e trasmettere simili valori ma è questa la scommessa di ogni credente: considerare la vita terrena come il luogo in cui spendiamo i talenti che ci sono stati donati a partire dal bene supremo: la VITA.
L’affettività è perciò molto più di un’emozione passeggera o di un legame più o meno forte; è un’assunzione di responsabilità che va mantenuta nel tempo, negli anni; è la fedeltà all’amore di Cristo e dei fratelli che diventa più difficile nel momento della prova, della Croce.
Solo la certezza per ogni credente che Dio non lo abbandonerà mai ci porta a dire insieme a Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura, andate incontro alla vita, alla ‘vita affettiva’ come ‘Testimoni di Gesù Risorto’, speranza del mondo”.
 
 
 
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